“Non gli usciva dalla testa che una fitta forfora di aggettivi.”
“Ci si abitua a tutto: al buio, al poco pane, alle violenze, alla vita incerta, ma non agli articoli di Gayda.”
“Devi alzarti dal letto ogni mattina con determinazione se vuoi andare a dormire con soddisfazione.”
“Perché un tizio è fallito una volta o due, o una dozzina di volte, non vorrai definirlo un fallito fino a che non è morto od ha perso il suo coraggio, che è poi la stessa cosa.”
“Le università non creano gli stupidi, li sviluppano soltanto.”
“È bene avere il denaro e le cose che il denaro può comprare, ma è bene anche, ogni tanto, controllare ed essere sicuri di non aver perso le cose che il denaro non può comprare.”
“Gli affari, più di qualsiasi altra occupazione, sono un calcolo continuo e un esercizio istintivo di preveggenza.”
“Emigranti. Pure noi siamo stati un popolo di emigranti. Sembra che nessuno se ne ricordi. Il nonno di Giovanni aveva disegnato santini e angeli per biglietti di auguri, volti di donne lontane per cartoline d’amore, cavalli dalle briglie sciolte che prendevano il volo verso patrie dimenticate. Non aveva mai smesso di coltivare un’abitudine appresa in terre lontane, scriveva lunghe frasi in inglese che abbandonava sulle panchine, sgrammaticate, zeppe di errori, ma era la lingua del popolo, imparata per sopravvivere. Povera gente andata al di là del mare, a bordo di inaffondabili Titanic, per fare fortuna, anche se spesso la fortuna restava un fiore non colto. Francesco diceva sempre di averla trovata quella fortuna, il viaggio aveva dato un senso alla sua vita, aveva conosciuto mondi nuovi ed era riuscito a superare difficoltà insormontabili. A quel tempo eravamo gli italianimafiosi, mangiaspaghetti, banditi e traditori, brutti, sporchi e cattivi, come in un vecchiofilm di Ettore Scola. Il nonno aveva attraversato strade polverose, conosciuto paesi dei quali non ricordava i nomi, amato donne dai sorrisimisteriosi, nascosto malinconie quando si sentiva disprezzato e rifiutato. Non era americano, tanto bastava…”
“Ricordi di bambino, vissuti tenendo per mano un nonno cantastorie. Ricordi che non potevano tornare ma erano ancora con lui. Sapeva che doveva stringerli forte per non farli fuggire lontano.”
“Marco sapeva che certe giornate non sarebbero più tornate, la sua adolescenza avvelenata stava morendo, ci sarebbero stati i ricordi, per fortuna, un patrimonio di sogni e speranze che nessuno poteva distruggere. Marco restava un’isola nell'oceano della solitudine, uno scoglio sconvolto dai marosi della tempesta.”
Marco si sentiva uno scoglio sperduto nell'oceano dell’umanità. Quando si sentiva infelice, scriveva. Proprio come cantava Guccini. "Se son d’umore nero allora scrivo/, scavando dentro alle nostre miserie/, di solito ho da far cose più serie/, costruir su macerie/, o mantenermi vivo". Mantenersi vivo. Non era così facile. Costruire su macerie. Marco era un esperto.
“Marco era una piccola isola perduta nell’oceano dell’umanità, ma era un’isola che stava sprofondando e nessuno era in grado di fare qualcosa per impedirlo. Fiorivano le stelle nei suoi sentieri di cielo, azzurro cupo come un pensierotriste, mentre per le strade del centro storico, proprio vicino al mare, si rincorrevano gatti e parole del passato, tra lunghi sbadigli di noia gialla come i fanali delle auto.”
“Il mistero dell’adolescenza si schiudeva alla vita con le prime ferite, il mistero dell’animaumana, dell’amoreumano, insopportabile, come un fiore di cactus che sboccia nell'ombra.”
“Marco aveva riempito quaderni su quaderni di bruttepoesie, ma dentro quelle scarne parole c’era tutto quello che lui era stato, quello che avrebbe voluto abbandonare, quel che stentava a dimenticare.”
“Avrebbe voluto un bacio per dissolvere tristezze, un pensiero dove cullarsi come in un’amaca tesa tra due pini marittimi, sulla spiaggia della sua fanciullezza. I sogni della gioventù lo abbandonavano con la stanchezza dolce, molle come un soffio di scirocco, con l’aria tiepida di giugno, di un giugno solitario tra abiti colorati e pantaloni corti.”