“Sono sperimentale per natura, sempre in procinto di esplorare la mia creatività.”
“Ho da molto tempo imparato ad accettare che non tutto ciò che creo vedrà un giorno la luce.”
“Gli sconfitti escono dalle guerre con una vitalità e un’energia creativa che i vincitori si sognano.”
“In passato si pensava alla facoltà creativa dell’uomo attraverso un’immagine aerea: l’ispirazione.”
Carmelo Bene o Giorgio Morandi non erano preoccupati della propria “creatività”: avevano da lavorare.
Uno studio lessicale sul termine “creatività”, o meglio sull’inglese creativity, mostrerebbe che il suo più largo uso non è avvenuto nell’ambito e nell’epoca dell’estetica romantica, quando pure più si parlava di “creazione” a proposito dell’invenzione artistica e quando più l’artista pareva essere dotato di virtù sovrannaturali e demiurgiche. La creativitàcompare invece a metà del Novecento e il suo luogo è l’incrocio fra la cultura e i mass-media. La vera mitologia della creatività si innesta su usi della parola (e dell’area concettuale) di tipo non direttamente artistico, o non pienamente artistico. Gli ambiti a cui la creatività è stata associata più di frequente, e quasi per antonomasia (sino a qualificare i rispettivi addetti come “creativi” o le sue produzioni come “creazioni”) sono la pubblicità e la moda prêt-à-porter. Entrambi (come il loro intreccio) sono impensabili senza comunicazioni di massa.